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Intervista Focus Dicembre - Franco La Cecla

 

Dal suo libro Contro l'architettura emerge un'immagine della città sempre più simile a una piattaforma costellata di monumenti architettonici da consumare velocemente. Tali opere, progettate da vere o presunte "archistar", molto spesso perseguono logiche di tipo comunicativo piuttosto che commerciale rifuggendo dall'affrontare le necessità reali dell'abitare. A fronte di tutto questo, dal suo osservatorio di architetto e antropologo, quali caratteristiche ritiene debba avere una città a misura d'uomo?

La domanda è già una risposta. La mia idea è che le città, in un modo o nell'altro, sono qualcosa di diverso da quello che gli architetti immaginano. Nel mio libro Contro l'architettura cerco di spiegare che alla fine le città, a loro modo, seguono logiche di sviluppo di altro tipo, nonostante gli architetti vi progettino monumenti sempre più a due invece che a tre dimensioni. Se c'è una cosa che a me non interessa è fare teoria sulle città. Le nostre metropoli sono un continuo negoziare tra gli abitanti e le forze in campo e da questo punto di vista esisteranno sempre. Il punto è che chi gestisce le città, dagli architetti agli amministratori, ne ha in qualche modo una visione molto astratta, che non coincide con la vita quotidiana della gente e soprattutto non serve al miglioramento e alla soluzione delle grandi emergenze del presente.
 
 

In quale modo crede che oggi le città abbiano ancora bisogno dell'architettura?

Sono convinto che l'architettura abbia ancora un ruolo nello sviluppo della città. Nel senso che gli architetti hanno una grande sensibilità verso gli aspetti spaziali della convivenza. Ci sono ambiti che devono essere riprogettati, per esempio tutto ciò che è chiamato spazio pubblico ma che tale non è, pensiamo allo spazio delle strade. C'è tutto un aspetto di miglioramento della vita quotidiana nelle città per il quale gli architetti possono dare un forte contributo, ma è necessario che in qualche modo si riprendano la città smettendo di pensare a creare monumenti e occupandosi, invece, di relazioni spaziali.
 
 

Se le archistar sono - cito da una sua intervista - "artisti al servizio dei poteri di oggi costruiscono enormi cartelloni pubblicitari sedotti da un foglio accartocciato", chi sono per Franco La Cecla gli architetti?

Il punto è che forse tutta la professione è un po' in crisi. Il pericolo è che, a fronte di 30 o 40 grandi architetti - le archistar - che progettano le grosse opere, gli altri architetti vivono un po' all'ombra e con il mito di diventare come le archistar.  Il fatto grave è che oggi l'architettura è diventata un po' come la formula uno: tutti sono convinti che bisogna andare a 300 km orari. Gli architetti dovrebbero essere soprattutto persone che si occupano della città, invece non è più così perchè la professione, dai concorsi agli appalti, sta investendo sul singolo edificio o monumento. Oggi agli architetti non viene più dato l'incarico di occuparsi del benessere della città. Mi sembra che sia in atto una trasformazione di questa figura. A causa di una forte mediatizzazione della professione gli architetti si accontentano di competere in un mondo da stilisti e non di agire come persone che si occupano della concretezza delle città.
 
 

Lei ha lavorato con molti architetti, famosi anche per la loro sensibilità alle problematiche della città contemporanea, tra i quali Renzo Piano e Josep Acebillo. Come, e quanto, le sue competenze di antropologo possono essere utili allo sviluppo di una progettazione corretta?

Non è facile. Mi sono reso conto, lavorando con Piano e Acebillo, che la mia consulenza per tutte le questioni sociali si scontra con la difficoltà di tradurre i risultati in progetto. È come se il progetto non riuscisse a raccontare la lettura del contesto, perché proprio gli strumenti del progetto non sono aggiornati. È come se non ci fossero tecniche di mappatura che possano raccontare le questioni sociali e ambientali. Ci sono programmi come autocad e quelli che usano i geografi, ma in mezzo non c'è niente.
 
 

In conclusione, qual è la definizione di qualità architettonica per l'architetto- antropologo Franco La Cecla?

Se c'è un fattore che costituisce qualità architettonica è probabilmente la complessità. La capacità, cioè, di creare spazi abbastanza complessi da non essere soltanto fruibili su una rivista patinata. La qualità architettonica a mio avviso si basa su due capacità: da un lato sapere generare una dimensione spaziale che non si può raccontare con una foto, dall'altro prevedere già l'uso: pensare che l'utilizzo fa parte del progetto, questo è quello che fanno alcuni grandi architetti.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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