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Francesco Karrer

 

Note biografiche

Francesco Karrer, ordinario di Urbanistica all'Università La Sapienza di Roma e autore di numero, dallo scorso marzo è presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Con questo osservatore privilegiato analizziamo lo stato della normativa e le prospettive del mercato italiano.
 

 

Concorsi, lavori, progettazione la chiave di volta è la domanda pubblica

 
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Focus n°
 
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Concorsi, lavori, progettazione la chiave di volta è la domanda pubblica

Parla Francesco Karrer, Presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici

  I problemi della progettazione pubblica in Italia vengono da lontano e sembra molto complesso dare chiarezza normative e operativa. Quali le cause?   
È senz'altro così. Le cause sono molte e profonde e non riguardano solo la progettazione in sé. Ma anche il contesto culturale, sociale, economico ed organizzativo. Ad esempio, non si può dimenticare il peso del settore dell'edilizia nell'economia italiana ed in specie in alcune realtà del Paese. Questo dà forza al settore o filiera, ma evidentemente lo fa divenire anche a rischio. Del resto, per quanto si facciano norme - che in origine sembrano anche molto efficaci -, per prevenire comportamenti non virtuosi da parte di chi opera in questa filiera, si deve constatare con rammarico che questi comportamenti continuano a manifestarsi. Anche l'elevatissimo numero di stazioni appaltanti e di operatori, ivi compresi i prestatori di servizio, facilita questi comportamenti. Da qui   norme che sembrano guardare spesso più alla prevenzione dei reati che alla   fluidità del processo di formazione della domanda, di decisione sulla stessa, alla sua traduzione in specifiche di progetto, quindi alla progettazione, verifica e validazione del progetto, collaudazione e abilitazione delle opere.
Il Nuovo regolamento, anche se non supera tutte le questioni aperte, è però un buon punto di svolta nella direzione auspicata: miglioramenti del ciclo del progetto e collocazione nelle diverse forme di appalto, la questione dei ribassi, quella della qualificazione, ecc.
Personalmente - penso che ci torneremo in questa intervista - ritengo che se c'è un punto chiave, strategico, questo sia rappresentato dalla domanda pubblica. Lo ricordava anche il Presidente della Biennale di Venezia, Paolo Baratta, in una intervista rilasciata in occasione della inaugurazione della attuale Biennale di architettura. Del resto questa riflessione la facemmo insieme proprio quando   lui era ministro dei Lavori Pubblici.

 Le recenti decisioni dell'Autorità di Vigilanza sembrano favorire l'uso del concorso: siamo sulla strada giusta?

Si, quella sorta di protocollo d'intesa stabilito con l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici va in direzione del   riconoscimento del ruolo del concorso di progettazione come modalità di selezione degli offerenti. E proprio questa apertura - che peraltro deve misurarsi pur sempre con il quadro comunitario oltre che   interno in materia di affidamenti di servizi e con la libertà di scegliere tra le procedure applicabili da parte delle stazioni appaltati - mette in evidenza quanto sia importante   la questione della domanda pubblica. Essa è assolutamente decisiva nel determinare la qualità del processo e quindi del prodotto in larga misura. Da essa dipende anche se e come verrà bandita una gara   di progettazione. A leggere in forma estensiva quel protocollo - forse la mia lettura è deformata dall'aver sentito tante volte interpretazioni simili da parte   di colleghi architetti - sembra quasi che la   spesa pubblica   possa essere decisa per via di concorso di progettazione. Ovviamente così non è   e così non può essere. Per via della logica della spesa pubblica - in specie di questi tempi - e per la logica stessa del concorso di progettazione.
Non si vuole la competizione sui costi del prodotto in conseguenza del progetto? Se la risposta è si, non si può non affidarsi alla domanda pubblica per avere il riferimento alle risorse economiche che una determinata stazione appaltante decide di investire in quella determinata opera. E bisogna stare anche molto attenti alla questione delle cosiddette compensazioni. Anche queste debbono essere predefinite, nella natura (meglio se in "link"   con l'opera ovviamente) e nei costi che la stazione appaltante intende sopportare. Se non lo si fa si altera il risultato del concorso.
Quante volte vediamo progetti vincitori modificati per somigliare magari a quelli non premiati, proprio perchè il costo del   progetto vincitore non risulta sopportabile da parte della stazione appaltante? Così non può essere. Occorre una vera responsabilizzazione del progettista, anche sulla previsioni dei costi. Questione che, ovviamente, incide sul livello di progettazione richiesto.
 
 Le esperienze dimostrano che il massimo ribasso determina scarsa qualità nella progettazione ed esecuzione. Condivide il giudizio?

Non c'è dubbio. Ma non basta denunciarlo. Bisogna trovare le soluzioni. Molto spesso è la difficoltà che incontrano le commissioni di gara nell'apprezzare il "merito tecnico" che porta a far valere soprattutto la riduzione del prezzo. E questo anche nei casi di offerta economicamente vantaggiosa. A volte è la natura dell'opera o della fornitura a non richiedere che   si pesino meno altri aspetti. Come si vede la casistica è ampia. Ancora una volta sta alla stazione appaltante determinare le condizioni per l'applicazione   della procedura   più idonea. Natura dell'opera, qualità della domanda pubblica, qualità del progetto e, non ultima, qualità degli atti di gara. La loro "progettazione" merita grandissima attenzione. Cosa che purtroppo avviene solo raramente.

 In Italia l'uso del concorso rispetto ad altri paesi è ancora poco frequente. Perché non si colma il ritardo?

P iù che il numero, che può essere anche ridotto, mi preoccupa la storia dell'istituto. Caratterizzato da sempre di scarsa effettività. Perché? Bisogna interrogarsi su questo. Quando si scrisse il c. d. "decreto Karrer" si era creata la condizione per una profonda rivisitazione dell'istituto del concorso. Posizioni corporative lo impedirono. Finché non si supera la falsa convinzione che con il concorso di progettazione si seleziona in partenza la platea dei prestatori di servizi, il problema non lo si affronta correttamente.
Bisogna creare forme di incentivazione perché le stazioni appaltanti utilizzino questa procedura di affidamento di servizi? Non credo. Al contrario, credo che si debba creare la cultura della sua applicazione. Dagli aspetti prodromici a quelli gestionali   fino a quelli operativi.   Ovviamente nel rispetto delle differenze, profondissime, tra tipi di concorso e di opere. Ed è meritorio il lavoro del Consiglio Nazionale al riguardo.

 Rispetto a una decina di anni fa sembra crescere la capacità dell'Ente pubblico di progettare opere, ma forse deve crescere anche la qualità e la competenza delle amministrazioni locali.

Sì, specialmente in alcuni settori la capacità progettuale degli enti pubblici è aumentata. Grazie a politiche sul personale ed ai   meccanismi di incentivazione della progettazione interna. Ma vi è molto ancora da fare. In questa fase storica caratterizzata dal   contenimento della spesa pubblica, da tagli di funzioni   e quindi di personale,   si possono creare gravi problemi. Particolarmente a rischio è il rapporto proprio con il mercato dei   servizi. Bisogna vigilare con molta cura. È facile che si possano creare situazioni di   progettazioni sottocosto! Un'altra fattispecie del massimo ribasso.
 
 Due anni fa si è tornati a parlare di legge sulla qualità architettonica ma non è accaduto nulla. Pensa che potrebbe essere efficace e con quale impostazione?

In un certo senso, non posso non rilevarlo, non mi sorprende che della cosiddetta legge sull'architettura (o sulla «qualità» dell'architettura?), si parli in modo ondivago, con alti e bassi di attenzione da parte del mondo della cultura e della politica, nonché delle istituzioni a vario titolo competenti (Ministero dei beni e degli affari culturali, Parlamento, Regioni).
Intanto credo che si debba segnalare la volontà dei proponenti di riferirsi soprattutto al Ministero dei beni culturali, sottovalutando le competenze di quello delle infrastrutture e dei trasporti (MIT). L'intento è duplice: esaltare il profilo culturale della proposta e uscire dal mercato dei lavori pubblici, per ottenere una sorta di area protetta, di area contrattuale   esclusa, cioè dal mercato e le sue regole per dirla in termini giuridici? Se fosse così. la proposta non sarebbe accettabile, ovviamente.
Da ciò emergerebbe un chiaro disegno culturale, ma anche un interesse quasi corporativo, che generano le difficoltà che si incontrano anche sotto il profilo legislativo. Ne sanno qualcosa le Regioni - poche - che hanno tentato di dare sostanza giuridica a tale disegno: non hanno superato il vaglio del giudice amministrativo (questo è successo in Puglia ad esempio ed in Umbria, dopo un'intensa discussione, si è optato per una soluzione molto minimale).
Il problema è molto complesso. E non valgono certi superficiali riferimenti ad altri paesi. Anche il tante volte richiamato caso della Francia, si presenta non solo difficilmente esportabile, ma anche contraddittorio e non a caso molto controverso già in casa. Le informazioni che circolano da noi non danno ragione del dibattito interno, dei conflitti tra istituzioni e tra queste e le categorie professionali, ad esempio. Ma soprattutto non toccano mai due questioni essenziali: la dimensione economica del mercato dei lavori pubblici e dell'edilizia privata e quella dei prestatori dei servizi in Francia rispetto all'Italia. Molto superiore il primo, molto   inferiore il secondo!
Al fondo: cosa può essere una legge sull'architettura? Un grande disegno politico - culturale? Una grande operazione di marketing del Paese Italia? Senz'altro si. Un tale disegno può essere limitato al "lancio" o deve essere accompagnato da una forte implementazione? Certamente è la seconda la risposta che ci si attenderebbe. Si porrebbero quindi problemi di rapporto con altri segmenti della cultura. Forse bisognerebbe superare, almeno nella concettualizzazione del problema, le settorialità: arti visive, cinema, teatro, letteratura, etc.
Tra le difficoltà - oltre quelle dovute alla implementazione d'una tale politica (formazione, rapporti con i sistemi di comunicazione, dotazioni finanziarie, "valore" della qualità dell'architettura nei processi   decisionali sulle opere, ecc.) - si dovrebbe evitare di cadere nella logica delle corporazioni. Una legge sull'architettura - ovviamente quella da fare, perché quella esistente è già oggetto della legislazione di tutela - non può essere ridotta ad una legge sugli architetti. A proposito di architettura già prodotta, vi sarebbe anche   molto da dire.
Dai tempi del "patrimoine" alla Françoise Choay a quelli di Rem Koolhas (si veda l'intervista a «Monde» dom. 5 - lun. 6/09/2010), di tempo ne è passato. La cultura del management e/o del ménagement, rispetto a quello dell'aménagement d'un tempo, dovrebbe essere posta al centro della rivisitazione di tale legislazione. La legislazione sulla tutela presenta molte criticità, riguardo all'architettura moderna (uso l'espressione in senso generale), ad esempio, e a quella   di recente produzione. Con i ben noti problemi sul diritto d'autore, ad esempio.
Parliamo quindi dell'architettura da produrre che deve essere di qualità. Emerge il problema   della definizione della qualità. Che deve essere ad un tempo di processo e di prodotto. La qualità di prodotto - oltre i profili inerenti la rispondenza al quadro normativo tutto - non dovrebbe essere influenzata dal valore economico dell'opera, sia pubblica che   privata. Anche la architettura low cost, deve essere di qualità!
Se così è - come credo - è sul processo di produzione   e la sua qualità che bisogna puntare. Per questa via si rientra però nell'alveo della disciplina dei lavori da cui si è cercato di uscire. Da migliorare, ne sono convinto, ma è in quell'alveo che va trovata la soluzione al problema, al riparo da scorciatoie e da corporativismi. Non è da un giorno che sostengo che l'incipit della qualità in architettura è rappresentato dalla "domanda", come formata, come espressa, come posta a base di verifiche e validazioni. Nel caso delle opere pubbliche particolarmente, ma nella consapevolezza che anche quelle private, che di fatto divengono parte della scena pubblica, dovrebbero avere una sorta di validazione migliore di quelle in uso. Di tipo ex ante, anche.
E questo dovrebbe essere il compito primo - da riesercitare con efficacia - della pianificazione urbanistica e della "nuova" regolamentazione edilizia, ispirata alla logica della "performance" ed estesa dalla "beautification" della città (con al centro lo spazio pubblico) sino al "redevelopment", passando per la conservazione ed il "maintenance", con attenzione alla salute umana ed alla sostenibilità ambientale oltre che alla sicurezza.
                                                                            Pierluigi Mutti
 
 
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