È una "libertà d'indifferenza" che rimane dopo la
conoscenza.
La conoscenza della normalità di una città, dei suoi labirinti
urbani più lontani, meno glamourous e
meno patinati. La città in immagini di Sofia Uslenghi potrebbe essere qualunque
città. Senza uomini, ma si capisce bene che è per gli uomini.
Parti di città costruite appositamente per i propri
abitanti, nel bene o nel male. Esclusivamente per loro. Queste porzioni di
città le dobbiamo chiamare periferia?
Spazio sociale? Ebbene dove è la società? Dove sono gli scambi, le relazioni,
la complessità umana?
Una città in bianco e nero: il colore avrebbe potuto aggiungere
troppo, o casomai togliere, a quegli spazi cercati quasi per caso, a quegli
accadimenti invisibili che ci aspettiamo all'improvviso possano apparire: una
bicicletta che passa, una donna affaticata sulla via di casa, bambini che
giocano, una finestra che si apre, un lenzuolo mosso dal vento appeso lì a quel
balcone. È uno scenario teatrale dinamico che si accende con un ciack
cinematografico azionato dalla fotografa/regista, un'ambientazione scelta con
cura. Una fotografia insolita oggi in un periodo in cui la fotografia digitale
a colori sembra voler catturare tutte le cromie del mondo: difficile e complicato
invece il b/n, fortemente pittorico, ricerca continua di un attento equilibrio tra
luce e ombra, dove la luce crea la forma e dove l'ombra ne identifica il
carattere.
Una normalità assoluta osservata nel particolare dell'anima
di un luogo che mestamente ci rappresenta, fatto di strutture e contrasti
accidentali, simboli casuali e dettagli ironici. Sono proprio questi paesaggi
urbani/umani, dove l'uomo non c'è ma si percepisce, che riescono ad essere
elevati, da superficiale quotidianità, a emozione: è la fotografia che li assolve,
cercando di non dare ad essi tutta la colpa della vita silenziosa e banale che
li contraddistingue. Elementi strutturali, spazi gergali che nel loro aspetto
austero fanno riflettere, impersonali, sebbene costruiti per la gente, contemporaneamente
ignari e consapevoli di ciò che può viverci accanto, dentro, intorno.
Una rassegna di foto che esprime un sentimento particolare
per la geometria degli spazi, una attrazione per giustapposizioni di piani e di
linee, un gioco continuo di ombre e tagli di luce che, attraverso regole
semplici e complesse, illuminano con caratteri distintivi un luogo per perdonarlo,
e con esso gli uomini che lo hanno generato.
Sofia Uslenghi ha grande talento, una tensione allo
sperimentalismo, un innato gusto per la narrazione minimalista ed elegante, un
desiderio di utilizzare ciò che guarda per raccontare una storia. È una
romanziera cosciente dell'immagine -come Virginia Woolf lo fu eticamente con la
sua prosa- scrittrice radicale che destruttura le trame di ciascuno di noi per
raccontare storie sospese tra realtà e finzione. Ma è proprio reale il "set"
che la Uslenghi inquadra e immortala, quella parte di città esiste davvero? È la
periferia, luogo sempre ignorato, malgrado si siano spesi fin troppi libri, fin
troppe parole, fin troppi studi. In queste fotografie al contrario la periferia
si scopre (o riscopre?), si comprende. Ma non si celebra. Con la sua
solitudine, le sue finestre tutte uguali, i suoi tagli architettonici arditi (Marcel
Duchamp direbbe che Sofia "sfrutta l'energia degli sguardi laterali"....), i
materiali degradati, la noncuranza delle forme. È realtà o fiction? Ci si può
rallegrare per un attimo nel pensare che sia finzione: no, noi non abitiamo li,
... invece scopriamo che forse è una necessità e una nostra volontà abitare proprio
quei luoghi.
Una esigenza che ci fa resistere nella banalità imperante,
nelle semplificazioni o complessità di un'edilizia
periferica che non può fregiarsi del titolo di architettura, che tenderebbe a portarci al livellamento del
pensiero.
Fortunatamente esiste l'arte, e la fotografia È arte, per riflettere, per opporsi agli
sguardi pre-confezionati, per restituire alla realtà la sua originale ambiguità
e alle persone la propria identità di attori pensanti.
In una realtà attuale che vede il più delle volte la
formazione alla fotografia indirizzata verso la sfera commerciale o verso una
sorta di anarchico foto-giornalismo, Sofia Uslenghi sembra seguire invece una
corrente neorealista commista con una fortissima umanità contemporanea che (chissà...)
potrebbe in futuro avvicinarla all'ironia dissacrante di Cindy Sherman, ma con un'eleganza
alla Tina Modotti. Il tutto con un personalissimo spleen, forse molto italiano, forse anche un po' padano.
Ma la Uslenghi è italiana o cittadina del mondo? Un talento,
il suo, che si riconosce nella produzione artistica, intensa per essere così
giovane, malinconica e a volte pungente, dove la passione per la composizione
fotografica non riesce a disconoscere i campi compositivi di una mente avvezza
alla disciplina architettonica. In effetti il suo occhio fotografico riconosce quelle
coincidenze fortuite, quei piani, simmetrie e asimmetrie che vengono notate
nella maggior parte dei casi dai più sensibili architetti.
Molti sono i grandi artisti che oggi, e anche ieri, hanno
fotografato la città, tra centro e periferia, luoghi dal grande fascino:
risultanti di tante cose, di tanti muri, di tante facce, di tanti frammenti, di
tanti racconti diversi. Ma se è vero che "fotografare l'architettura è quasi
impossibile" come ha scritto nel 1955 Ernesto Nathan Rogers su Casabella, e se,
sempre parafrasando le parole di Rogers, tale difficoltà ha le sue ragioni più
profonde nell'essenza stessa del fenomeno architettonico, ebbene Sofia Uslenghi
in questa raccolta di fotografie di una Parma periferica, eleva gli edifici,
anche i più anonimi, a umani tableaux-vivants,
dove, è vero, non vengono ritratte le persone, ma ne sono sottintese le loro
storie collettive, per rendere carichi di intensa emozione i ritratti
fotografici di un margine di città, letto con un rigore e una delicatezza tutta
femminile.
Chiara Visentin
aprile 2011