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Interpretare il caos per raccontare luoghi e città

 
 Questa intervista è stata pubblicata sul  Focus di Gennaio 2009 
 
 

La sua esperienza di documentazione del territorio - dalla mission DATAR in poi - è stata sforzo continuo di interpretazione. Oggi è ancora possibile?

L' attenzione per il paesaggio urbano e per il territorio è antica quanto la fotografia e ha seguito l'evoluzione delle città dal diciannovesimo secolo fino ad oggi con un approccio che comunemente viene definito "documentario". Quando uso la parola documentario intendo attribuirgli il significato di "testimonianza della realtà", un po' come avviene nel cinema e nella letteratura, come qualcosa che sta tra arte e documento.  
Partendo dal famosissimo lavoro dei coniugi tedeschi Becher, al quale è riconosciuta una valenza sia artistica che di linguaggio della cultura industriale, dagli anni ottanta in poi il lavoro dei fotografi sul territorio è servito anche come strumento per interpretare il caos che l'evoluzione delle città contemporanee portava con sé. Per questo motivo la fotografia ha interessato moltissimo tutte le persone che si occupano della città, non sono solamente gli architetti, urbanisti o amministratori pubblici.
E' successo così che la fotografia, che prima era per alcuni un semplice documento sensibile e funzionale, ha ottenuto all'esterno una maggiore riconoscibilità.
 
 

In un'intervista lei ha dichiarato: "Vedo la città come un grande corpo che respira, un corpo in crescita, in trasformazione, e mi interessa coglierne i segni, osservarne la forma, come un medico che indaga le modificazioni del corpo umano." Dal suo personale osservatorio di architetto e fotografo quali sono le modificazioni della città contemporanea?

Questa dichiarazione è tratta dal libro "Interrupted City", un lavoro dedicato a Milano, la mia città, che ho realizzato nel '95 e '96.  Le spiego meglio cosa intendo: l'osservatorio dal quale gli specialisti più competenti, urbanisti,  sociologi, antropologi e via dicendo, guardano la città che si arricchisce ogni giorno di nuove problematiche, è sempre più complesso ed è difficile mantenere un unico punto di vista.
In primo luogo, mi immedesimo nel ruolo del cittadino che, al di là delle conoscenze specifiche espresse dalla cultura architettonica, ha una percezione dello spazio costruito e dei luoghi urbani, che gli viene dal camminare liberamente nella città.
Tutto questo ovviamente ha a che fare anche con la fotografia, ma è la dimensione poetica, alla fine, che prende il sopravvento.
Quando sono operativo sul campo e osservo da vicino il paesaggio urbano, mi rendo conto dei tanti problemi che si stratificano nello scenario che mi sta davanti, e che rendono complessa ed enigmatica la descrizione del luogo.
All'inizio l'istinto è quello di privilegiare una scelta estetica, cioè di lavorare a livello compositivo, cercando però una relazione di senso con un atteggiamento critico in rapporto alle possibili questioni sollevate.
A titolo di esempio possiamo considerare la Cina, che è il paese che ha avuto la più rapida e complessa trasformazione urbana degli ultimi decenni. Pechino e di Shangai sono oggi due megalopoli, ma mentre la prima, pur avendo edifici alti, si è sviluppata per lo più orizzontalmente, possiamo considerare la seconda come una foresta di grattacieli, quasi una New York asiatica.
Quindi, in un paese che aveva tradizioni e linguaggi molto lontani dal mondo occidentale, oggi assistiamo al fenomeno per cui è più facile vedere differenze fra Pechino e Shangai che tra Shangai e New York.
Questo avviene a causa della globalizzazione che ha avvicinato i lontani del mondo, mediante l'uso degli stessi modelli costruttivi e tecnologie. Ma nello stesso tempo non si sono completamente annullate le specificità del luoghi, e quindi noi assistiamo alla compresenza di stili architettonici espressione della tradizione di singoli luoghi urbani, con altri che appartengono al mondo intero.
 
 

Nelle nostre città è ancora possibile ritrovare qualità architettonica? Se sì, dove?

Innanzitutto c'è una qualità urbana consolidata, che appartiene alla storia e che abbiamo il dovere di non dimenticare, anche perché ci può venire in aiuto. Quella che per il passato prossimo riguarda il lavoro di architetti straordinari come Aldo Rossi o, oggi,  come Alvaro Siza. Personalità anche molto diverse tra loro, ma grandi intellettuali ed artisti che hanno saputo distillare il valore della storia per trasferirlo nel progetto. Oggi questo aspetto si è un po' perduto, forse perchè sono svanite le regole che hanno creato un dialogo con il contesto, e si costruisce l'architettura come espressione artistica e plastica realizzando opere di grande seduzione estetica.
 
 

Se le affidassero l'incarico di sviluppare un progetto fotografico per suscitare una riflessione, sul nostro paesaggio urbano, utile per architetti contemporanei impegnati a costruire nelle nostre città, cosa fotograferebbe? E perchè?

Quando devo fotografare una città che non conosco spesso mi sento a disagio perché mi rendo conto che nei miei desideri il lavoro dovrebbe essere impegnativo, ambizioso, durare degli anni, e questo alla fine è quasi sempre, purtroppo, impossibile. Allora devo trovare delle soluzioni alternative più praticabili, senza alterare il senso e il fascino della ricerca.
Uno dei miei ultimi lavori è stato l'attraversamento della città di Roma seguendo il corso del Tevere, utilizzandolo cioè come strada e come osservatorio della città stessa.
Per citare il rapporto degli architetti con la fotografia, vorrei parlare ancora di Alvaro Siza, uomo sensibile ispirato da un profondo senso etico, oltre che grande architetto, viaggiatore curioso e osservatore della città. Quando deve documentarsi per un nuovo progetto fa molti sopralluoghi, ma usa anche moltissimo il lavoro dei fotografi. Siza sostiene che i fotografi usano lo sguardo in modo più profondo, e che la loro visione dello spazio è preziosa per cogliere quello che nella città spesso è invisibile.
 
 

In un'importante rivista di architettura svolge un corso a distanza di fotografia dell'architettura attingendo alla sua esperienza. Quale obiettivo si pone?

Il mio obbiettivo è quello di raccontare alcune esperienze della mia vita professionale attraverso lavori un po' speciali che hanno avuto a che fare con gli architetti e con la cultura del progetto, ma che non corrispondono solamente a riprese classiche di architettura pubblicate in libri o riviste. Questo per dimostrare che l'esperienza della fotografia di architettura è più vasta di quello che si possa pensare.
 
 

Lei fotografa in bianco e nero realizzando scatti che ritraggono spesso i non luoghi delle nostre città con il risultato di renderli ritratti malinconici. E' come se il bianco e nero consenta di cristallizzare sulla pellicola il lato migliore di questi spazi. Potremmo dire che attraverso l'uso del bianco e nero lei purifica la città reale che è a colori?

Se così è non è stata certo una scelta ideologica, ma è stata una scelta di continuità dell'esperienza negli anni. Devo specificare che quando ho iniziato questo mestiere nei primi anni '70 la fotografia artisticamente impegnata, o fotografia di ricerca come si chiamava in quegli anni per separarla dalla fotografia più commerciale, era rigorosamente in bianco e nero. Rarissime erano le immagini d'autore realizzate con il colore. Solo all'inizio degli anni '80  è iniziata e poi si è consolidata una produzione e una ricerca artistica nella fotografia che privilegiava l'uso del colore.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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