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Servono architetti condotti per intervenire sul territorio

 
Questa intervista è stata pubblicata sul Focus di Marzo 2010

 

Professor Zorzi, in base alla sua esperienza di docente e poi di preside della Facoltà di Architettura di Torino, ritiene ancora attuali le modalità e le procedure per costituire un programma di lavoro, di ricerca e quindi di didattica all'interno dell'università? Quali modifiche sono necessarie per stare al passo con le esigenze delle nuove generazioni, soprattutto per porre il progetto sempre più al centro della formazione?

A Torino ci sono due facoltà di Architettura, io sono preside della I Facoltà del Politecnico a cui fanno riferimento i corsi di Architettura e di Disegno Industriale. Negli anni scorsi abbiamo formulato un piano strategico di Ateneo il cui iter di adozione è stato sospeso e che partirà soltanto dall'anno accademico 2010/11: da un lato siamo stati impegnati a rivedere il modello formativo in base al DM 270/04, non ancora convertito in legge, dall'altro occorreva aspettare che il Disegno di legge presentato dal ministro Gelmini su scuola, università e ricerca si trasformasse in legge.
Credo, ma è una sensazione abbastanza diffusa, che la struttura attuale di dipartimenti e facoltà separati dopo quasi trent'anni oggi non funzioni più. Sarebbe opportuno avere scuole o strutture che, in qualche modo, riassumano sia la gestione della ricerca che quella della didattica, per sfruttare sinergie da individuare in competenze diverse e che possono essere applicate a problemi relativamente omogenei.
Non dobbiamo sottovalutare il minore spirito critico che le nuove generazioni sembrano mostrare rispetto al passato, forse perché i corsi di studi per gli architetti prevedono un'impegnativa presenza in aula riducendo la possibilità di approfondimento personale da parte degli studenti. Per questo motivo i nuovi strumenti formativi che adotteremo dal 2010/2011 ridurranno il tempo per la didattica frontale a vantaggio, appunto, dell'approfondimento personale.
Vanno evitati alcuni rischi. Il primo è il ritorno a un modello più legato alla vecchia accademia che ai moderni politecnici, che consentono un'attenzione maggiore alla complessità dei problemi affrontati e alle competenze che sono impiegate in una progettazione. Il secondo rischio mi pare di vederlo nei modelli di formazione che come punto di riferimento privilegiano l'attività delle archistar rispetto al lavoro quotidiano degli architetti. E infine dobbiamo evitare il ritorno a una concezione del risultato del progetto di architettura che trova al suo interno le ragioni del proprio essere e che per questo non dialoga con il contesto.
Mi sembra che l'obiettivo sia non illudere i giovani dando loro come unico riferimento Piano o Isozaki, perché se è vero che questi nomi oggi lasciano un segno nell'architettura è altrettanto vero che sono una minoranza. I nostri studenti, purtroppo numerosi rispetto alle richieste del mercato, si rapporteranno con piccoli interventi che segneranno profondamente il tessuto territoriale. Per questo motivo ho sempre voluto pensare a una figura paragonabile a quella del medico condotto: non si capisce perché non ci siano architetti condotti che aiutino a intervenire sul territorio in modi che non siano disastrosi, come spesso avviene oggi.
 
 

Da questo punto di vista, quali sono le priorità che si è posto per la gestione della Facoltà?

Nella revisione dell'ordinamento didattico abbiamo mantenuto il progetto come momento centrale della formazione. Il nostro modello è molto particolare perché si riferisce a laboratori progettuali multidisciplinari, per fare sì che il progetto sia affrontato dagli studenti evitando un approccio puramente formale. Il tentativo è fare comprendere che il progetto non è solo l'ideazione della forma ma è un processo che deve tradursi in una realizzazione.
 
 

Tra le cause dell'abbassamento del livello qualitativo della formazione universitaria alcuni indicano la proliferazione di corsi di laurea e di atenei non adeguati.

Questo rilievo è abbastanza vero, anche se non penso che sia l'unico motivo. Non si può negare che ci sia stato, almeno in generale, un proliferare a volte immotivato di corsi di laurea. A Torino abbiamo attuato una politica di riduzione sospendendo l'iscrizione a tutte le sedi decentrate e riducendo il numero di corsi di studio in una percentuale quasi del 40 per cento: direi che siamo stati fin troppo attenti a questa esigenza. Ovviamente se si parla di problemi legati alla qualità della formazione universitaria non dobbiamo dimenticare che in Italia gli investimenti pubblici per la ricerca e l'università sono molto ridotti e questo problema non viene preso in grande considerazione a livello governativo. Un altro aspetto da sottolineare è legato alle non trascurabili carenze formative della scuola media superiore, che non consentono agli studenti di affrontare con solide basi il percorso universitario.
 
 

Una forma di concorrenza delle Università, sotto il controllo del Ministero dell'Istruzione che avrebbe il compito di accreditare, valutare, incentivare e soprattutto garantire il rispetto degli standard qualitativi degli atenei, stimolerebbe la qualità del sistema universitario o lo impoverirebbe?

In generale penso che una forma di concorrenza tra le università sia utile. Il nostro Rettore a Torino spinge molto in questa direzione e credo abbia ragione. Però non credo che la concorrenza, aspetto sicuramente importante, sia l'unico fattore per aiutare a migliorare il livello medio generalizzato della qualità dell'insegnamento universitario. Gli atenei si sono trasformati in università di massa e questo probabilmente non ha aiutato. Ma è anche vero che esiste un principio fondamentale: il diritto agli studi inteso come possibilità di accedere a campi di conoscenza. Come questo diritto si possa tradurre in pratica è altro discorso. Le facoltà di architettura hanno introdotto il numero chiuso, però è necessario trovare altri modi per diffondere conoscenza e cultura, perché un numero troppo alto di studenti rischia di essere un freno rispetto al miglioramento qualitativo. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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