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Gabriele Basilico. L'uomo che fotografava le periferie invisibili

 
Testata:
la Repubblica
 
Data:
14-02-2013
 
Autore:
Michele Smargiassi
 
 

Era finito su Topolino. Il riccastro Rockerduck, eterno rivale di zio Paperone, esclamava: «E per le foto, esigo il leggendario Gabriel Rosmarino!». Quella vignetta lo aveva fatto ridere come un matto, l'aveva incorniciata a una parete dello studio caoticamente razionale che condivideva con la compagna di vita, la photoeditor Giovanna Calvenzi, dalle parti della Stazione centrale di Milano; l'aveva anche piazzata sul suo profilo Facebook. Come fotografo, del resto, Gabriele Basilico, portato via ieri, a 68 anni, da un male troppo veloce e feroce, era un bambino saggio (e instancabile: ultima mostra in gennaio a Villa Pignatelli, a Napoli; ultimo libro, Leggere le fotografie, appena uscito da Rizzoli). Un bambino curioso e riflessivo, entusiasta e misurato. Guardare il paesaggio umano, per lui, era scoprire ogni volta un mondo mai visto prima, come capita spesso ai bambini. Raccontava divertito di quando interruppe una faticosa sessione di scatti, a Mosca, per mostrare a una ragazzina nativa digitale, sotto il panno nero, il mondo capovolto sul vetro smerigliato della sua macchina di grande formato, e godersi il suo stupore.
Una sola cosa riusciva a turbargli il piacere del suo lavoro: quando, fra gli applausi e l'ammirazione, qualcuno insinuava che le sue indagini visuali sulla cultura urbana, trent'anni di esplorazioni in oltre sessanta metropoli del mondo che lo hanno portato ad essere riconosciuto come uno dei maggiori fotografi internazionali del paesaggio antropizzato, che quelle immagini fossero fredde, senza vita.
«Ma questo è lo spazio creato dall'uomo. Io non fotografo mai paesaggi disabitati. Io vado in cerca dei luoghi dove l'uomo ha creato se stesso, e ogni volta che li trovo, mi fermo e mi chiedo: cosa è successo qui? Chi ha voluto questo, chi ha cambiato questo luogo che prima era diverso, e perché lo ha fatto?».
(...)

 
 
 
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